Irak: Biblioteca Nazionale


Hoy he seleccionado un fragmento
de la traducción al italiano
del capítulo sobre Irak en la obra
sobre la destrucción de
los libros de Fernando Báez




Il 10 maggio visitai la sede devastata della Biblioteca Nazionale, in arabo Dar al-Kutub Wal-Watha’q. La cosa strana è che si compivano settant’anni dal grande rogo del 1933 in Germania, una data fatale per la cultura. Naturalmente ero stato avvertito da alcuni miei colleghi della drammaticità della situazione, ma le cose che ho verificato e alle quali ho assistito, vale la pena dirlo, mi hanno tenuto insonne nelle notti successive. Sarebbe stato meglio, forse, dimenticare, ma ho scoperto che spesso uno dimentica affinché le cose tornino nuovamente a sorprenderci. Le trappole della ragione sono le più traditrici.

La Biblioteca Nazionale che è ancora in piedi, è un edificio a tre piani di 10.240 m2 costruito nel 1977, con finestre in stile arabo al secondo piano. Al mio arrivo c’era ancora una statua di Hussein con la mano sinistra in posizione di saluto e la destra che reggeva un libro appoggiato sul petto, (è difficile crederlo, ma Hussein, era un lettore vorace). Questa statua, come tutte le altre di Hussein, è stata poi abbattuta. Già da lontano notai che la facciata, al centro, era stata danneggiata dal fuoco, il quale aveva distrutto con tale forza le finestre, che aveva impresso nel luogo un’atmosfera malinconica. L’ingresso, protetto dal sole da un saliente, sopra cui è scritto il nome della biblioteca, lasciava intravedere all’interno una decina di operai e di esperti al lavoro. La luce filtrava dalle finestre e metteva in risalto migliaia di carte sul pavimento. La sala di lettura, lo schedario di legno con il catalogo di tutti i libri e gli scaffali erano stati letteralmente abbattuti. La struttura dell’edificio appariva così gravemente danneggiata che difficilmente avrebbe sopportato l’impatto di un minimo tremore. Un impiegato mi disse, sottovoce e con esitazioni inspiegabili, che la Biblioteca aveva subito due attacchi, e non uno, e due saccheggi, cosa mi lasciò esterrefatto perché non avevo mai letto quest’informazione nei rapporti precedenti.
Il pavimento era ancora ricoperto di cenere. Gli archivi di metallo erano bruciati, aperti e vuoti.

Il saccheggio della Biblioteca è stato preceduto da alcuni fatti sconcertanti. Prima ci fu l’attacco a Bagdad con bombe MOAB e missili, che distrussero più di duecento edifici pubblici, decine di mercati e negozi. L’operazione Impatto e terrore durò fino alla fine di marzo. Il 3 aprile erano cominciati i combattimenti nell’aeroporto Sadam Hussein, a dieci chilometri dal centro della città. Il 7 c’erano già i carri armati per le strade. Già l’8 aprile, le truppe statunitensi avevano sotto controllo alcune zone di Bagdad. Quel giorno, in una delle anse del Tigri, tra i ponti Al Jumhuriya e 14 di luglio, l’offensiva si fece più accanita. Su un argine, da sud, avanzava la Terza Divisione d’Infanteria, e gli iracheni cercavano di fuggire verso nord, con l’obiettivo di collocare una bomba sul ponte Al Jumhuriya. In fondo, il combattimento fu breve e in poche ore, dalle 7,30 alle 9,30, le strade si riempirono di carri armati Abrams M1. Allo stesso tempo, i due palazzi presidenziali più importanti furono espugnati, così come alcuni ministeri, come quello degli Affari Esteri e dell’Informazione. Decine di soldati presero a vigilare il Ministero del Petrolio, del quale, di certo, non si smarrì neanche una matita.
Il fulcro della resistenza si trovava a sud della città, dove i fedayin o i martiri combattevano con vigore. A un certo punto, l’artiglieria degli alleati fece saltare in aria un deposito di sabbia e munizioni nascosto sotto un terrapieno di sabbia, sulla riva del fiume Tigri. Per circa mezz’ora l’unica cosa che si sentiva era una serie di detonazioni, mentre dal luogo dell’esplosione si diffuse un’ondata di fumo nero che ricoprì il cielo della città per il resto della giornata. Questi attacchi, e l’informazione che il regime di Hussein era caduto e che Hussein in persona era fuggito con i suoi figli in un rifugio, provocarono la confusione generale tra la popolazione. Non c’era la polizia e i soldati statunitensi avevano ricevuto ordini specifici di non sparare contro i civili né di rispondere a richieste che non fossero obiettivi militari.
Il mercoledì 9 aprile fu abbattuta la grande statua di Hussein nella piazza centrale. Un soldato arrivò persino a collocare sul viso della statua una bandiera degli Stati Uniti e poco dopo corresse il suo gesto e la rimpiazzò con una bandiera irachena. Appena queste immagini ebbero circolato e il rumore fu confermò, una marea umana, repressa da dieci anni di embargo economico e da una dittatura implacabile, si rovesciò per le strade senza controllo. Il saccheggio iniziale ebbe come obiettivi i palazzi e le abitazioni dei dirigenti iracheni. L’abitazione di Tareq Aziz fu una delle prime. Dagli ospedali si portarono via persino i letti. Nei negozi, i commercianti, armati di pistole, fucili e sbarre di ferro, montavano la guardia e respingevano i saccheggiatori, molti dei quali erano giovani, bambini e donne. Non pochi furono i luoghi, considerati simboli del regime, che tra il 9 e il 10 si arresero alla violenza dei saccheggi.
Il 10 aprile una folla proveniente dai sobborghi si raccolse nella Biblioteca, che non era difesa da alcuna unità militare. All’inizio prevalse la cautela e la fretta, poi l’impudenza e l’anarchia imposero le regole del saccheggio. Bambini, donne, giovani e anziani si impossessarono di tutto ciò che era possibile prendere, in modo selettivo, come se fossero andati a fare la spesa. Il primo gruppo di saccheggiatori, sapeva dove si trovavano i manoscritti più importanti e si affrettò a impossessarsene. Altri saccheggiatori, affamati e carichi di rancore nei confronti del regime deposto, arrivarono più tardi in cerca di oggetti di valore, provocando il disastro successivo. La gente correva dappertutto con i libri di maggior valore. Portarono via con sé anche le fotocopiatrici, le risme di carta, i computer, le stampanti, i mobili. Sulle pareti lasciarono messaggi del tipo: “Morte a Sadam”, “Sadam morto”, “Sadam apostata”. Inspiegabilmente, un cameraman riprese in tutta tranquillità questi fatti e poi svanì senza lasciare tracce.
I saccheggi si ripeterono anche una settimana dopo, poi il 13 aprile un gruppo arrivò in un autobus azzurro, senza simboli ufficiali, e senza proferir parola, incoraggiati dalla passività dei militari, cosparsero con qualche combustibile gli scaffali e appiccarono il fuoco. Ovviamente, fecero anche dei falò con i libri. Secondo un’altra versione, per l’incendio fu utilizzato del fosforo bianco di provenienza militare, ed esistono prove evidenti che lo confermano. Passate alcune ore, un’enorme colonna di fumo era visibile a più di quattro chilometri di distanza. In quell’incendio divorante andarono in fumo le opere. Tra i vari danni, arsero i vecchi macchinari e alcuni giornali. Al terzo piano, dove si trovavano gli archivi dei microfilm, non restò nulla. Il calore, che da quel che ho potuto constatare è stato molto intenso, ha danneggiato il pavimento di marmo e ha causato gravi dissesti, specialmente alle scale di cemento armato e al soffitto. Durante quello stesso attacco fu distrutto anche l’Archivio Nazionale dell’Iraq, al secondo piano della Biblioteca, che si avvaleva di un équipe di lavoro di 85 persone. Sono spariti milioni di documenti (alcuni parlano di dodici, altri di due o tre), compresi alcuni del periodo ottomano, come i registri e i decreti.
Il giornalista Robert Fisk (The Guardian, 15 aprile 2003)è stato testimone dei fatti e in una cronaca divenuta celebre, ha raccontato la sua testimonianza:

Ieri c’è stato l’incendio dei libri. Per primi sono arrivati i saccheggiatori, poi gli incendiari. È stato l’ultimo capitolo nel saccheggio di Bagdad. La Biblioteca Nazionale e l’Archivio Nazionale, un tesoro di valore incalcolabile di documenti storici ottomani – compresi gli antichi archivi regi dell’Iraq – si sono trasformati in cenere alla temperatura di tremila gradi … Ho visto i saccheggiatori. Uno di loro mi ha maledetto quando ho cercato di richiedergli un libro di leggi islamiche che un bambino di appena dieci anni aveva in mano. Tra le ceneri della storia irachena ho trovato un archivio che volava in aria: pagine di carta scritta a mano nella corte di Sharif Husayn de la Meca – colui che avviò la rivoluzione araba contro i turchi –per Lawrence d’Arabia e i governatori ottomani di Bagdad.
E le truppe statunitensi non hanno fatto nulla. Nel cortile fuligginoso volava tutto per aria. E le truppe statunitensi non hanno fatto nulla; lettere di raccomandazioni per le Corti d’Arabia, richieste di munizioni per le truppe, rapporti sui furti di cammelli e attacchi di pellegrini, il tutto scritto in delicata calligrafia. Sostenevo tra le mani le ultime vestigia della storia scritta dell’Iraq. Ma per l’Iraq questo è l’Anno Zero; sabato, con la distruzione delle antichità nel Museo Archeologico Nazionale e l’incendio dell’Archivio Nazionale e poi della Biblioteca Coranica, l’identità culturale dell’Iraq si è cancellata. Perché? Chi gli ha dato fuoco? Con quale demente finalità si è distrutta tutta questa eredità?
Quando dalle finestre ho visto ardere la Biblioteca Coranica tra fiamme di trenta metri di altezza, sono corso negli uffici degli occupanti, l’Ufficio di Affari Civili dei Marines degli Stati Uniti. Un ufficiale ha gridato a un suo compagno: “Questo ragazzo dice che c’è una Biblioteca Biblica (sic) in fiamme”. Gli ho dato la piantina della zona, il nome esatto in arabo e in inglese e gli ho detto che il fumo era visibile a distanza di quasi otto chilometri e che per raggiungere la Biblioteca ci volevano al massimo cinque minuti. Mezz’ora dopo, non c’era neanche un soldato statunitense nel luogo del misfatto e le fiamme raggiungevano i sessanta metri di altezza.

Concluso il disastroso saccheggio, non c’era letteralmente niente da fare. Il segretario della Difesa degli Stati Uniti, in segno di scusa per quegli episodi, ha commentato che “la gente libera è libera di commettere simili misfatti, e cose del genere non si possono impedire”. Il precedente direttore della Biblioteca si è lamentato con rimpianto: “Non ricordo un simile atto vandalico dai tempi dei mongoli”. Alludeva al 1258, anno in cui le truppe di Hulagu, discendente di Gengis Khan, invasero Bagdad e distrussero tutti i libri lanciandoli nel fiume Tigri. Un altro impiegato della biblioteca ha commentato: “Cesare distrugge un’altra volta i libri”.
Le sue parole mi hanno ricordato un passaggio del dramma Cesare e Cleopatra di George Bernard Shaw:

TEODOTO (sui gradini, con le braccia levate): Indicibile orrore! Ahimè, sciagura! Aiuto!
RUFIO: Che c’è di nuovo?
CESARE (aggrottando la fronte): Chi stanno scannando?
TEODOTO: Scannando! Oh, peggio della morte di diecimila uomini! Irreparabile perdita per l’umanità!
RUFIO: Che è accaduto, buon uomo?
TEODOTO: (corre già nel salone, tra loro) Il fuoco s’è propagato dalle vostre navi. La prima delle sette meraviglie del mondo perisce. La biblioteca d’Alessandria è in fiamme.
RUFIO: Ma via! (Molto sollevato, va alla loggia e osserva i preparativi delle truppe sulla riva.)
CESARE: È tutto qui?
TEODOTO (incapace di credere ai propri sensi): Tutto qui! Cesare: vuoi passare ai posteri come un barbaro soldato troppo ignorante per conoscere il valore dei libri?
CESARE: Teodoto: anch’io scrivo libri; e ti dico che è meglio che gli egiziani vivano la loro vita anziché sognarla con l’aiuto dei libri.
TEODOTO (s’inginocchia, con la sincera commozione dell’uomo di lettere: la passione del pedante): Cesare: il mondo acquista un libro immortale una sola volta ogni dieci generazioni.
CESARE (inflessibile): Se quel libro non adulasse l’umanità, il boia comune lo brucerebbe.
TEODOTO: Senza la storia, la morte ti farà giacere accanto al più vile dei tuoi soldati.
CESARE: La morte lo farà in ogni caso. Non chiedo tomba migliore.
TEODOTO: Ciò che sta bruciando laggiù è la memoria dell’umanità.
CESARE: Memoria di vergogna. Lascia che bruci. * (*NdT: Bernard Shaw, Cesare e Cleopatra, in Bernard Shaw, UTET, Torino 1978, pp.279-280)

Per quanto riguarda le perdite, è certo che più di un milione di libri sono stati bruciati, ai quali va aggiunta la grande quantità di testi andati dispersi. E’ importante ricordare che la Biblioteca, oltre a occuparsi del deposito legale, era costituita da altri tre settori: stampe, periodici e archivi. Il deposito legale consisteva nella consegna di cinque copie, anche se la situazione economica aveva ridotto considerevolmente questa pratica. Migliaia di donazioni hanno arricchito il centro per anni. L’ingresso dell’Archivio Nazionale, oggi chiuso al pubblico, rivela i segni di un terribile incendio (sembra la porta di un ascensore in rovina) e mostra la distruzione di tutto quello che prima esisteva al suo interno.
La cosa più dolorosa è la certezza della vicenda della Biblioteca Nazionale, è la definitiva scomparsa di edizioni antiche delle Mille e Una Notte, dei trattati matematici di Omar Khayyam, dei trattati filosofici di Avicenna (in particolare il suo Canon), di Averroè, di Al Kindi e di Al Farabi, delle lettere del Sharif Husayn de La Mecca, di romanzi di scrittori universali come Tolstoj, Borges, Sábato, di manuali di storia della civiltà sumera…
Per le strade, nei punti vendita di libri, si possono comprare volumi della Biblioteca Nazionale a prezzi irrisori. Il venerdì, nella Fiera della via Al-Mutanabbi, si trovano in vendita molti di questi libri. Ho visto con i miei occhi un volume dell’Enciclopedia Araba, completo di timbro ufficiale stampato sul frontespizio, anche se era visibile il tentativo fallito di cancellarlo. Ho anche trovato un volume dal titolo Miskhaf Resh (Libro nero), sulla cultura yezidi, un gruppo religioso del nord dell’Iraq. Si tratta di una strana etnia, conosciuta come “gli adoratori del diavolo” grazie alla loro fede in Melek Taus, o “Tacchino Reale”. Gli yezidi credono che Dio abbia già perdonato il demonio e che questi viva vicino a lui. Per ragioni simboliche, detestano il colore azzurro, erigono templi nei luoghi di pellegrinaggio, e anziché andare alla Mecca, si recano alla tomba di Cheij Adi, vicino a Mosul.
I danni subiti dall’edificio della Biblioteca Nazionale sono talmente gravi che i coordinatori culturali della CPA* (*Coalition Provisional Authority) hanno deciso di demolirlo e di trasferire la Biblioteca in un’altra sede, o in un palazzo o in un edificio, come il Club Militare dell’Iraq; ma è tutto ancora incerto: la violenza generata da una resistenza crescente mette in serio pericolo la sicurezza di ciò che si protegge. I libri, mi hanno riferito, sono stati trasferiti all’Università Bakr. Gli archivi, invece, sono stati sistemati in altro luogo. Tutto il materiale che si è salvato, invece, è ancora insacchettato, e non sono stati ancora presi provvedimenti ufficiali in materia di conservazione. Una grande incertezza riguarda la difficile situazione del personale. Prima vi lavoravano 119 persone, dirette da Khamel Djoad Hachour, ma ora i loro stipendi sono stati annullati e non gli è stata garantita la stabilità professionale.


Per fortuna, sono stati salvati molti libri trasferendoli in luoghi segreti o spostandoli in sedi distaccate della Biblioteca. La storia di questo impegno per salvare i volumi conferma l’immenso amore che gli iracheni sentono verso la loro cultura. Ancora oggi, per esempio, ci sono cinquecentomila volumi, non classificati, ammucchiati in pile, al primo e secondo piano della Biblioteca. Non gli è garantita protezione alcuna, dato che i soldati non sorvegliano più l’edificio. Questo compito è stato assegnato ad alcuni soldati sciiti.
Oltre a questi libri, il leader religioso al-Sajid Abdul-Muncim al Mussawi ha ordinato ai suoi fedeli di riscattare dalla Biblioteca quasi trecentomila libri che sono stati poi trasportati in camion fino alla Moschea di Haqq, dove sono stati ammucchiati in pile altissime, che in alcuni raggiungono il soffitto. Non esagero nel dire che le condizioni del luogo sono pessime ed è probabile che gli insetti comincino ad attaccare i testi, anche se Mahmud al-Sheikh Hajim, il loro protettore, è convinto che sarebbe stato molto peggio se fossero stati distrutti. La cosa curiosa è che il gruppo che ha salvato questi libri appartiene a una scuola di chierici sciiti, meglio conosciuta col nome al-Hawza al Ilmija. Per questi religiosi, i libri sono sacri. La loro religione, l’Islam, considera il libro del Corano come l’incarnazione stessa di Dio e questa possibilità, cioè che il libro sia un attributo della divinità, li tiene in stato di allerta.
Anche altrove sono stati messi in salvo dei libri; quasi centomila si trovano in un magazzino che apparteneva al Dipartimento del Turismo. Alcuni intellettuali mi hanno mostrati dei libri che tengono nascosti fino a quando l’ordine non sarà ristabilito e gli “stranieri” non saranno ripartiti. La maggior parte è depositata in quella che prima si chiamava Sadam City, un quartiere povero che accoglie più di due milioni di esseri umani ammucchiati in labirinti modestissimi.
Un miracolo ha salvato dai saccheggi altre collezioni di libri a Bagdad. Si è salvata la moschea Qadiriya, la cui biblioteca rappresenta l’ordine sufì più famoso al mondo, diretto da Sajid al-Qadir al-Gaylani. Non sono riuscito a vedere la collezione ma so che raccoglie 65.000 libri e 2.000 manoscritti segreti. Anche la collezione Deir Al-Aba Al-Krimliyin, che raccoglie 120 manoscritti dell’opera di al-Ustadh Mari al-Krimli, è rimasta intatta, mentre non ha avuto la stessa fortuna la Maktabat Al-Hidaya, che è stata saccheggiata. Di un totale di 600 manoscritti ne sono rimasti soltanto la metà.

È sorprendente che la prima distruzione di libri del secolo XXI sia avvenuta proprio nella nazione dove ebbe luogo l’invenzione del libro nell’anno 3200 a.C. Questo memoricidio* del 2003 non sarà forse un avvertimento, un segno, un simbolo di un’epoca nella quale si impone la globalizzazione dell’incertezza, la miseria, lo scoraggiamento, e come se non bastasse, l’oblio delle radici più profonde, autentiche ed eterogenee della nostra civiltà?


Faleh al-‘Azzawi, un intellettuale iracheno, ha voluto conoscermi e ci siamo incontrati al primo piano della Biblioteca. Sembrava interessato a un mio libro sulla distruzione dei libri che sarebbe uscito in Spagna. Lui aveva scritto una storia popolare dell’impero persiano.
“Cosa le hanno detto?” mi chiese subito.
Sorrisi perplesso, cosa che non gradì.
“I saccheggi, l’incendio, quello che tutti sanno. C’è qualcosa di nuovo?”
“Lei non sa perché sono stati saccheggiati i musei e le biblioteche?” tornò a domandarmi.
“È presto per fare congetture,” gli dissi.
“O troppo tardi, professore” commentò.
“In che senso?”
“È evidente quello che è successo,” disse sgranando gli occhi.
“Non per me,” precisai.
“Vede,” spiegò, “se visita il Museo Archeologico, se ispeziona questa Biblioteca Nazionale, se va a Bassora, a Kerbala, a Najaf, a Mosul, resterà colpito dai messaggi scritti sulle pareti. Messaggi di odio contro il regime. Forse lei arriva all’improvviso e preferisce pensare che gli statunitensi siano gli unici responsabili del saccheggio. Non è vero?”
“Non avrebbero dovuto proteggere i centri culturali?” lo interruppi. “Non è obbligo di una nazione che sottoscrive la Convenzione dell’Haya del 1954?”
“Sì, in questo ha ragione,” disse. “Li avrebbero dovuti proteggere. I soldati hanno sottovalutato la protezione del patrimonio culturale. Un errore assurdo, dovuto forse allo scarso livello culturale del segretario della Difesa e del Presidente George W. Bush. Ma loro non sono i responsabili assoluti. Di responsabili ce ne sono anche altri”.
“Chi sono?” chiesi, e cominciai a prendere appunti.
“Spero che lei non si faccia condizionare da una concezione sbagliata del regime di Hussein”.
“Cosa intende?”
“L’Iraq è in guerra da decine d’anni. Otto anni in guerra, contro l’Iran. Nel 1991 la Guerra del Golfo. E ora questa guerra. Il paese è impoverito e le assicuro che Hussein è stato un despota. La sua dittatura è stata spietata, un’epoca terribile e infame. Omicidi, torture e censure ne sono state le cicatrici. Il figlio Udai aveva una stanza che si chiamava “al-Gurfa al-Hamra” dove applicava la corrente ai suoi nemici. Il comandante Ali Hassan al Majid ha sterminato in un solo giorno cinquemila curdi in un attacco con prodotti chimici acquistati dai tedeschi. Insomma, le dico che gli Stati Uniti hanno abbattuto un mostro”.
“Questa non può essere la giustificazione per cominciare una guerra,” dissi. “Gli Stati Uniti hanno appoggiato dittature in tutto il mondo, come quella di Augusto Pinochet in Cile, e tante altre in Centroamerica e in Europa”.
“Non intendevo dire questo, professore. Mi riferivo al fatto che il Partito Baas del regime di Hussein, con più di due milioni di iscritti, era molto diffuso in tutto l’Iraq. Contava con esperti in campo militare, ma soprattutto godeva di una forte influenza nel mondo studentesco. Aveva il potere di nominare rettori, cattedratici e sportivi e, cosa ancor più significativa, il suo potere era assoluto all’interno della classe intellettuale (intellighentia). Nessuno poteva essere scrittore o artista senza appoggiare direttamente o indirettamente il Baas. Tutti gli impiegati dei musei e delle biblioteche si spiavano tra di loro e informavano il Partito. Tutta quella gente che ha conosciuto lì dentro, non viveva soltanto del proprio impiego culturale. Erano spie”.
“Spie?” chiesi.
“Sì, per Dio! È per questo li odiano. Molta gente ha saccheggiato le biblioteche e i musei per fame, per trovare qualcosa da vendere, altri hanno saccheggiato per approfittare della situazione. Ci sono state delle bande è vero, ma alla fine l’incendio finale della Biblioteca è stato provocato dal fatto che la caduta del regime ha dato sufficiente coraggio a molti per attaccare i centri dove lavorava la burocrazia culturale del regime, con l’obiettivo di distruggere quei luoghi. Nell’euforia del momento, hanno dimenticato che è demenziale bruciare i libri. Ecco tutto. Così come si abbattono le statue, allo stesso modo si attaccano le biblioteche. Il messaggio era diretto ai sostenitori del Baas. Quelle stesse biblioteche, che lei tanto appoggia, si sono distinte per atti inenarrabili”.
“Può dirmi qualcosa di più…” suggerii.
“Censura, professore. Non conosce questa parola? I libri sconvenienti, venivano distrutti. È stato conservato soltanto ciò che veniva considerato storico o religioso, mentre migliaia di opere contemporanee sono state distrutte per anni. Io stesso ho accusato alcuni bibliotecari, non tutti, di essere al servizio della propaganda ufficiale. La Biblioteca era piena di immagini di Hussein e dei suoi libri, sempre disposte in luoghi speciali; i suoi romanzi dovevano essere ammirati da tutti”.
“Anche oggi c’è la censura,” dissi. “Ci sono decine di giornali chiusi e più di cinquanta scrittori e giornalisti iracheni in carcere”.
“Ho cercato di spiegarle come andavano le cose,” aggiunse con aria più sommessa. “In ogni caso lei viene da lontano e vorrei aiutarla a non fare confusione. Deve sapere che prima c’erano soltanto cinque quotidiani ufficiali ed erano Al-Thawra, pubblicato da el Baas; Al-Jumhuriyah, bollettino ufficiale del Governo; Al-Qadisiyah, definito portavoce delle forze armate durante la guerra Iraq-Iran; Al-Iraq, che contava con il patrocinio dei partiti curdi che appoggiavano il Governo. Il quinto quotidiano, Babil, di Udai Hussein, il figlio di Sadam, era l’unica eccezione: ha pubblicato notizie che erano state censurate da altri giornali e ha avuto il coraggio di prendere le distanze dalle regole stabilite dalle autorità. Oggi ci sono più di cinquanta quotidiani e ce ne saranno ancora altri, di diversi orientamenti. Per quanto riguarda le riviste, la situazione è simile. È di nuovo in vendita Al-Kawzar, una rivista bisettimanale che prima era proibita. Questa è censura?”
“Ma, esisteva la consapevolezza che ci sarebbero stati i saccheggi?” chiesi, sconcertato.
“Certo. Come si spiega altrimenti il trasferimento dei libri? Era ovvio che la biblioteca sarebbe stata un bersaglio degli attacchi. Questo lo sapevano in molti. Soprattutto tra gli sciiti, perché loro erano in contatto diretto con gli statunitensi e sapevano che sarebbero potuti accadere disordini”.
“Allora,”dissi, “in questa vicenda ci sono vari responsabili”.
“La verità non ha genitori. In questa distruzione di libri, che immagino farà parte anche del suo libro, i responsabili hanno nome e cognome: l’Amministrazione Bush, perché ha sottovalutato l’allarme dei suoi assessori che consigliavano di proteggere il patrimonio culturale, l’Amministrazione di Hussein, perché ha provocato un enorme odio in molti settori della popolazione, avendo utilizzato la cultura come arma politica. Per questo, professore,” sottolineò prima di salutarmi, “per questo nessuno farà niente. Non ci resta che ricostruire e riconciliare, due verbi che considero indispensabili nel mio paese. Ma’a s-sâlama”.


Questo è quel riguarda la visita nella Biblioteca Nazionale. Fin qui ho cercato di offrire un’idea generale di quel che sono riuscito a scoprire; ciò nonostante, temo di non riuscire a trasmettere alcuni strani episodi che ho presenziato. Quando penso a quei giorni, così vicini, mi tornano in mente le scene più assurde e i comportamenti più singolari. Ricordo che nessuno della CPA era interessato alla vicenda delle biblioteche. Appena usciva il discorso, cercavano di cambiare argomento. Ricordo un impiegato iracheno che si lamentava perché una settimana prima dei saccheggi, aveva nascosto i suoi soldi dentro un libro, per poterli spendere senza dover chiedere il permesso alla moglie. E un venditore di libri che aveva la sfrontatezza di vendere i suoi libri rubati quasi davanti alla Biblioteca. E la donna impazzita che ci fermò in strada per mostrarci un piccolo scrigno dove custodiva una fotografia ridotta in pezzi. E il giovane che piangeva perché aveva collaborato all’incendio dei libri senza sapere bene il perché. Tutto questo, lo so, ha meno importanza, ma non riesco a cancellarne il ricordo, che si fonde con quell’acuto sconforto che mi ha segnato e che è divenuto ormai un incessante rumore nella mia memoria.

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